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27/11/2020
Già da tempo in Osteria Francescana lo chef Bottura, la sua brigata in cucina e il personale di sala hanno fondato e adottato un nuovo linguaggio gastronomico, ripensando l’atto del cibarsi, in un rinascimento culturale, perché anche dal convivio e dal simposio passa la cultura.
Nel nome dell’Osteria entra S. Francesco, santo della condivisione attento alle povertà, che richiama l’idea di pasto comunitario, di convivio che, tipicamente, in un refettorio si dà. E non a caso “refettorio”, perché l’attenzione a queste realtà nasce dalla sensibilità per il sociale, e contro lo spreco, del nuovo approccio al cibo che dall’Osteria parte.
L’accesso alla Francescana richiede pianificazione. I posti disponibili sono pochi e si esauriscono velocemente quando si aprono le prenotazioni. Se si controlla frequentemente la situazione, però, si trovano disponibilità temporanee che permettono una “reservation last minute”. Documentandosi in anticipo in rete è possibile sfruttare al massimo le opportunità di degustazione offerte e magari progettare subito un’eventuale seconda visita in cui esplorare altre possibilità.
Una volta finalmente arrivati, dopo un selfie d’obbligo davanti a quell’insegna, la porta si apre e si viene accolti in una vera e propria galleria d’arte. La quantità di opere artistiche in cui ci si immerge è da sindrome di Stendhal, a partire da quella all’ingresso e dall’esplosione floreale che letteralmente avviene sotto i nostri piedi. E più ci si addentra nei corridoi e nelle sale, accompagnati al proprio tavolo, più se ne incontrano. Sediamo alla mensa circondati d’arte, in un’atmosfera ovattata. Quasi un perenne vernissage, in cui anche lo stesso dialogo spicciolo tra commensali sembra doversi fare aulico e solenne, nell’irrinunciabile reciproco scambio di impressioni. Quasi un novello cenacolo vinciano (che è in un refettorio!).
Arte sono l’accoglienza e il servizio: una persona dedicata che accudisce ogni ospite nella propria sistemazione al tavolo, la spiegazione di quel che seguirà e la raccolta dei desideri dei convenuti, la sincronizzazione con cui ad ogni commensale viene servito il piatto nello stesso modo e con lo stesso orientamento da personale di sala dedicato ad ognuno, dovesse essere richiesto dalla complessità della portata servita.
E sono opere d'arte le pietanze, i vini e i drink. Ma sono anche opere frutto di perizia e abilità, di arti, tecniche e mestiere per produrre scientificamente manufatti “molecolari” di fattura perfetta, creati con procedimenti impeccabili. Non sempre sarà corretto parlare di un solo gusto del piatto. La degustazione di ognuno di essi è infatti un percorso percettivo segmentato, complesso e articolato, ma assolutamente armonico, in cui più stimolazioni di tutti i sensi si susseguono e dialogano fra loro, a mano a mano che vengono scoperti i vari ingredienti e le molteplici elaborazioni cui sono stati sottoposti.
Dopo la riapertura post-lockdown il menù degustazione si è adeguato, perché mai come ora si è avuto e si ha bisogno di tutti: “With a little help from my friends” è il suo nome. Ma, pur essendo esplicito il richiamo ai Beatles, trattandosi di rifondazione linguistica orgogliosamente e profondamente italiana sarà il capolavoro di Dante a guidarci in questo magnifico viaggio gastro-culturale e artistico, perché, mutuandone le parole, qui non manchi “possa all’alta fantasia”.
C’è l’amore verso l’uomo e verso la natura. Come la Divina è una galleria di “amori”, anche questa degustazione ci parla d’amore: per le stagionalità (in questa versione autunnale del menù fragole, pesche, albicocche hanno giustamente lasciato il posto a zucche, castagne, funghi e nocciole) e per la propria terra, cosmopolita, allucinato, sublimato, disperato, nostalgico e intellettivo. Cucinare è amare.
C’è l’intera vicenda umana in un percorso gustativo che va da piatti sul principio della vita (il pane, che è portata a sé), ad accostamenti evocativi delle superne cose (la celestiale teoria conclusiva dei dolci, titillare delicato ma persistente di sapori evocativi).
È un percorso di sensi e di pensiero suddivisibile in cantiche: l’Inferno (luogo delle passioni, anche violente), il Purgatorio (luogo del raccoglimento e della nostalgia) e ovviamente il Paradiso (luogo della sublimazione e del compimento del senso totale, la visione globale in cui tutto si situa al proprio, perfetto posto).
L’incipit è trinitario. Tre macaron, tre gruppi di sapori, tre assaggi da effettuare rigorosamente nell’ordine suggerito. Rappresentano bene i tre regni ultraterreni: il rosso, con rapa e prugna, terroso con sentori dolciastri, passionale come l’Inferno, il verde, con menta e lime, balsamico e arioso, meditativo come il Purgatorio, e infine l’arancio, con carota e zenzero, il più croccante dei tre, potente e con una nota speziata esotica, conclusivo come il Paradiso. Richiamano apertamente già le ultime terzine della commedia, la triplice visione finale del divino e dei misteri più profondi del trascendentale. Ma qui siamo all’inizio del viaggio, del divertimento. A dispetto del riferimento ai Beatles (“Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” è il nome del piatto), questi tre “cuori” non sono solitari ma un tutt’uno. È impressionante l’analogia con gli endecasillabi di Dante che raccontano di “tre giri di tre colori e d’una contenenza e ‘l terzo parea foco”. Siamo ipnotizzati dalle due corone circolari del doppio piatto, a raggi bicolore: accentuano un movimento centrifugo, a compensazione della “contenenza” dei tre macaron, triangolarmente situati al centro, e danno un’illusione di rotazione, “come rota ch’igualmente è mossa”, come fosse un irraggiamento dell’“amor che move il sole e l’altre stelle”. È un‘introduzione, certo, ma mette bene in chiaro il doppio piano, sensoriale e intellettivo, necessario per poter apprezzare e godere fino in fondo dell’avventura appena iniziata.
Il piatto successivo (“A Day in the Life”) eleva il pane a dignità di portata autonoma. Dalla varia alveolatura, servito su un piattino minimalista, adagiato su un tovagliolo candido, ad esaltarne l’unicità e la meraviglia, il valore e la preziosità, è da mangiare rigorosamente e francescanamente con le mani, essendo il tatto uno dei sensi maggiormente coinvolti ora. Il pane è una delle più iconiche rappresentazioni dell’amore; il gesto atavico del suo essere spezzato è condivisione per antonomasia e il punto focale della comunanza universale del genere umano. È il cibo che probabilmente unisce maggiormente tutte le tradizioni culinarie dell’uomo nel suo farsi mezzo di sostentamento primario. È il fulcro di tutti i refettori che, francescanamente, forniscono l’energia necessaria a perpetuare l’umano vivere. E qui l’amore è stagionalità, con i sentori di nocciole e tartufo che pervadono i seni nasali e le fauci durante l’assaggio, avvolti dalla dolcezza derivante dal miele della tenuta di campagna, Casa Maria Luigia.
È solo con “Cellophane Flowers & Kaleidoscope Eyes” che entriamo nel primo dei tre regni dell’oltretomba, maggiormente caratterizzato dalle passioni, ove incontriamo quella, travolgente, di Paolo e Francesca. Il piatto, dal predominante cromatismo rosso, è già visivamente psichedelico, la gelatina di lamponi “on top”, a rappresentare il cellophane del nome e a coprire i petali dei fiori eduli, rose ma non solo, costituenti, invece, la parte caleidoscopica. Il tutto circondato dal rosso vivo del brodo di shiso e lamponi. Ma la parte più propriamente passionale si scatena all’assaggio, quando la delicatezza dei gamberi crudi si schianta con l’esplosione della sapidità delle uova di trota e dei capperi e con l’acidulo dei lamponi. È d’obbligo far esplodere con la massima cura contro il palato ogni singolo uovo perché solo così si apprezzerà la passione contenuta nel piatto, appagando la ricerca con cui ogni singolo ingrediente viene reperito, al di sotto dei fiori, a mano a mano che si procede nelle profondità fisiche e tridimensionali di questa portata. Tanti sapori in magica armonia tra loro, legati dallo stesso “amor ch’a nullo amato amar perdona”, che non concede divagazioni, richiamando tutti all’unità del rosso lampone. Fantasticamente “Galeotto” questo piatto. Provare per credere.
Rimanendo in tema ittico, si passa al merluzzo (“If I’m Wrong I’m Right”) che ora si riveste di colori autunnali e caldi cromatismi. L’amorevole attenzione per la stagione accompagna il pesce con salsa di curry rossa, crema di funghi, crema di zucca, crema di cocco e chips dai toni ambrati. E la decorazione floreale ottenuta con le creme, da assaggiare preferibilmente per ultime, per non compromettere la degustazione del merluzzo, passa dai toni giallo-verdi della versione estiva ai più intimisti e autunnali bianco-ambrati e ocra, ma in un susseguirsi di spiccati sapori. La cottura del pesce è nobilitata dagli accostamenti antagonisti del fungo e della zucca (ma se sbaglio, ci azzecco, giusto?) e la sua morbidezza esaltata dal contrasto con la croccantezza delle chips. È un piatto golosissimo: avessimo avuto a disposizione fin da allora il pane d’accompagnamento, avrebbe esatto una scarpetta. Ci siamo invece prodigati a raccogliere con le posate e con il merluzzo le creme fiori-formi e la salsa, concedendoci, così, di allungare i tempi di questo godimento. Anche qui passione per il cibo gustoso e saporito, accostato ad una salsa di spessore, rotonda, cremosa, che inizia ad aprire i portali del ricordo, anticipando la nostalgia delle attenzioni che l’amorevole cura delle nostre nonne e madri ci riservava nei succulenti manicaretti delle feste. Eh no, proprio non abbiamo trovato l’errore richiamato dal nome!
“Chicken, Chicken, Chicken Where Are You?” è l’icastica domanda che viene affrontata al piatto successivo. La perenne ricerca del vero e l’insaziabile sete di sapere hanno guidato l’uomo nel progresso ma lo hanno anche dannato ad una perenne insoddisfazione. Ulisse viene punito da Dante proprio per questo esagerato amore per la conoscenza (“fatti non foste a viver come bruti…”) che trasmuta in superbia. Ebbene qui in realtà siamo indotti a cercare il pollo solo perché qualcuno se lo chiede, altrimenti forse non avremmo neanche mai azzardato un’ipotesi, perché in questa pregiata tartare, adagiata in una rappresentativa ciotola, sommersa da croccanti e finissime verdurine, probabilmente non avremmo mai pensato al pollo. La vividezza acida del brodo di accompagnamento, che fornisce una necessaria proto-cottura alla carne, cela probabilmente l’arcano. Ma non osiamo sfidare questa volta le colonne d’Ercole e semplicemente ipotizziamo che il nostro ingrediente sia da cercare proprio lì.
La pietanza successiva, “The Snail in the Skull”, ci fornisce molto bene le coordinate attuali del nostro viaggio, come un sestante la latitudine ai “navicanti”. Il teschio messicano, disegnato da colorate creme di peperoni, ci osserva dal candido piatto, sfondo ad una tortilla, sovrastata da fiori e verdure, adagiata sulla parte proteica, le lumache. Tradizioni, quindi, che ci portano nella Giudecca dantesca, al centro del mondo, di fronte a lui, al teschio, evocato con un’immagine gotica e infernale (lumache in un teschio). È un tradizionale rito di passaggio, un punto di svolta in cui dobbiamo lasciarci avviluppare dai forti e dolci sapori del peperone, dalla friabilità della tostada, dalla novità delle lumache e della loro singolare consistenza. E ce lo mangiamo proprio, il saporitissimo teschio, come fossimo degli Ugolino noi e l’arcivescovo Ruggeri lui, muto, disposto solo a farsi divorare, raccogliendo le creme con le posate, per non lasciarne nemmeno una molecola sul piatto.
Ci avrebbe fatto comodo pure qui, anche se avrebbe accelerato troppo la degustazione, ma il pane arriva solo ora, col netto sentore aspro del lievito madre usato per avere la bella lievitazione. E assieme al pane un coltello cesellato nella parte tagliente e recante il nome dell’osteria, più adatto alle carni che seguiranno. Entriamo nel secondo regno, quello della nostalgia, della meditazione, dei ricordi atavici richiamati alla memoria: l’alta montagna dalle sette balze, il Purgatorio, che ci accompagnerà nelle successive tre portate.
“Lovely Rita” è denominato il trancio di animella arrostita in padella, ricoperto di petali rosso carminio, servito con un brodo di mela e prugne a parte. Ispirato all’amore per la tradizione, si tratta di un nobile recupero di una tradizionale cucina più povera, che si rivolgeva al quinto quarto per recuperare e sfruttare tutto della bestia che veniva macellata, spesso a casa, nelle case coloniche della tradizione contadina, quando possedere un animale poteva fare la differenza in tempi duri. Accanto a questa è anche la tradizione dell’agrodolce, da retaggi antichissimi, quando gli arrosti erano accompagnati da prugne, albicocche, mele o altra frutta. “Ricordati di me, che son la Pia” è il verso che dà il tono di nostalgia alla memoria. I sentori d’arrosto gradevolmente delineati, assieme al netto sapore del brodo di mela, richiamano d’improvviso la fanciullezza di quando, la domenica, si affrontava il pranzo anche più ricco di proteine i cui buoni odori iniziavano ad invadere la casa fin dal primo mattino, spinti dall’amore con cui le “resdore” si davano da fare. Cucina del recupero, quindi, della nobilitazione e della memoria, aiutata dalla raccomandata alternanza tra consistenza dell’animella e sorseggio del brodo di accompagnamento.
Nonostante il technicolor invocato dalla domanda successiva (“Who’s Afraid of Red Yellow Green and Orange?”), ci viene presentato un succulento carpaccio di daino, in cui la monocroma superficie rossastra della carne, brunita dalla densa salsa, nasconde, al di sotto delle sottili fette, i funghi e il foie gras. Il pane ci aiuta a mitigare i contrasti aspri e a raccogliere tutta la gustosa salsa.
“Autunno in Emilia Romagna” è il nome dell’ottimo drink che, con i vini in abbinamento, viene servito ora, e che innalza la gradazione per le tappe successive con perfetto tempismo. La poetica malinconia delle brume richiamate dalla schiuma, la nostalgica memoria dell’autunno richiamato dalla foglia di quercia, l’alcolicità del Lambrusco potenziata da quella del vermouth generano l’ossimoro per snebbiare il palato dalle rotondità e cremosità delle ultime carni servite, rendendolo più sensibile alle note dei piatti a seguire. Siamo in cima alla “santa montagna”, dov’è il Paradiso Terrestre di Dante, giardino incontaminato di prati fioriti, a metà strada tra il ricordo e l’innovazione, tra passato e futuro.
Troviamo quindi qui un risotto che richiama gli arcinoti “Strawberry Fields”, dal sottotitolo “but not forever”. Direttamente dagli ’80, la memoria ripercorre i primi momenti dell’incontro tra l’acidulo del frutto e la pienezza del burro e del parmigiano, ma queste innovative, per allora, ricette, sono rielaborate ora in modo più attuale ed interessante. Prati sicuramente visionari, ma declinati con cura nelle varietà stagionali più appropriate: non fragole, infatti, ma uva fragola, mirtilli e ragù di selvaggina. Visivamente si presenta come un omogeneo tappeto carminio striato dalle più cupe note del mirtillo, teatro dell’agone tra la pungente acidula asperità dei frutti di bosco e la più corposa nota della selvaggina. A metà strada tra un dolce ed un piatto di carne, un ottimo, “antico” dolce carnoso.
Esce il pane ed entriamo terza parte, quella celestiale, ariosa, patentemente dolce. Paradisiaca.
“Winter Is Coming… anche in Sicilia” è il primo dolce, versione autunnale del primaverile “Summer is Coming”. Esce in accoppiata con una brioche sfogliata e si presenta come due candide e ortogonali nubi di arioso gelato alle mandorle, adagiate su una salsa che unisce pistacchio, bergamotto, arancia e cappero. Al palato la consistenza della nube di gelato svanisce, quasi implodendo, come fosse neve, per lasciare il posto al puro aroma mandorlato che viene poi spinto “in su” dalle note agrumate ed amarognole, a causa del caffè, della salsa, mentre le punte di salinità dei capperi amplificano i sapori canonici. L’unica nota croccante è la decorazione simil-floreale, ma è giusto così: stiamo ascendendo all’empireo e le nuvole sono la materia di cui siamo circondati: nuvole e sapori, evanescenze ed aromi.
E l’empireo stesso si fa dolce in queste ultime riprese. Siamo in cielo, anche senza Lucy (“In The Sky Without Lucy”). In questo secondo dolce le nuvole sono ancora più realistiche che nel precedente. I cromatismi ocra, bruniti, gialli e dorati sono presenti ovunque, a partire dalla meravigliosa stoviglia che li accoglie, il contorno della quale richiama i bordi consunti di un’antica pergamena. La costruzione del dolce si rifà ad un piatto storico (la “crostatina caduta”) nell’obliquità dei piani intersecantisi tridimensionalmente e sovrastati dalle nubi di zucchero, grigie e opache, quasi grondanti di pioggia autunnale. C’è uniformità di intenti nella croccantezza delle chips da sfogliare e gustare una per una, attraversando le grigie coltri di zucchero all’esterno, nella carnosità dei funghi e nei sapori del mandarino, della dolce castagna, della zucca, fino a scoprire la cannella del gelato che si insinua nelle profondità oro-rino-faringee, solidificazione della visione finale e dell’appagamento totale, per poter accedere alla comprensione completa del senso del piatto. È dolce amore, pura tensione papillare e gustativa fino al climax finale del gelato.
Come se il precedente passaggio fosse anche stato l’invocazione di San Bernardo alla Vergine, si riprende sul finale lo stesso tema trinitario dell’inizio. “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (Reprise)”, infatti, ci propone, contenuta in un piatto con gli stessi psichedelismi del primo, ma in versione rettangolare, una trinità di dolcezze puntuali e conclusive: una pseudo-ciliegia di Vignola avvolta in uno scrigno di cioccolato, la ripresa in miniatura di un’altra storica pietra miliare dello Chef (il “Camouflage”), ma in versione cioccolatosa e caffeinica, e infine un macaron al lampone, richiamo estremo dei tre iniziali. Un’altra trinità in cui la canonicità dei gusti è presentata ancora in chiave innovativa.
Uno scatto ulteriore, ce ne fosse bisogno, sono le madeleine (allo yuzu), servite a parte, con le loro suggestioni letterarie (la zia Léonie di Proust!) e gustative, agrumate, soffici, presentate forse sulla più classica delle stoviglie, un piattino in pieno stile “ancienne” proprio a richiamare, ne sono convinto, le antiche memorie di ognuno. In apparente discussione con la triade di prima, chiariscono invece che l’innovazione è tale solo se la lingua nuova è in grado di amare, comunicare e rigenerare anche vecchie emozioni. Come ora.
Concetto confermato dal colpo di scena finale, a guisa di ringraziamenti di fine opera, di scene “post-credit”. L’”Happy Birthday Cake” è la rivisitazione del popcorn, caramellato, in più consistenze, compresa quella polverizzata, che si disperde al soffio dello spegnimento della candelina, circondata dall’essenza al popcorn.
In tutto ciò sta la forza dello chef, della sua umanità, empatia ed energia vitale, della brigata e della sala. Di uno chef che, pur essendo “stella” dello “star system” gastronomico, viene incontro, proprio di persona, durante il pasto, saluta, scambia due parole, si presta ad autografi e foto-ricordo, e se ti incontra per strada e ti riconosce come suo ospite, si ferma, ti saluta, e fa volentieri altre due chiacchiere. Non siamo noi a doverlo inseguire, ma sono la sua spontaneità, la sua simpatia che si fanno dialogo immediato e naturale.
La lingua culinaria dell’Osteria Francescana deve essere onorata come merita la genialità creatrice che è alla base di tutto questo capolavoro. Magari arricchendo l’esperienza totale (“full experience”) con una permanenza anche a Casa Maria Luigia, tanto per non farsi mancare niente del mondo di Massimo Bottura.
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